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Smart work e smart city

3 novembre 2020
La prima volta che vidi lo “smart working” risale a circa quattro anni fa. Ricordo un grande open-space con postazioni di lavoro raggruppare in isole di tavoli aggregati e tutti gli impiegati sembravano lavorare in modo autonomo, a voce bassa ciascuno con la propria cuffia, davanti ai monitor e poca carta sul tavolo.
Editoriale
di Giuliano Dall’O’


“La maggior parte delle cose che servono è digitalizzata” precisò la persona che gentilmente mi accompagnava, “tutto ciò di cui hanno bisogno è sui server”. Notai dei luoghi chiusi sparse qua e là, simili a cabine telefoniche completamente trasparenti dove però si poteva stare seduti. “A cosa servono?” domandai incuriosito, “quando un dipendente deve fare una telefonata, di lavoro o personale non importa, per non disturbare gli altri si chiude dentro visto che lo spazio è insonorizzato” fu la risposta. Seppi poi che le postazioni di lavoro erano flessibili, nel senso che il posto da occupare veniva prenotato attraverso una App e non era mai lo stesso. Le postazioni disponibili, inoltre, erano state progettate per soddisfare il 70% dei dipendenti. Al mio accompagnatore, orgoglioso di mostrarmi il modello organizzativo adottato dalla sua azienda, feci una domanda che molto probabilmente si aspettava: “ed il rimanente 30?” lui mi rispose prontamente: “lavora da casa in smart working”. Per le cose personali venivano comunque garantiti degli spazi chiusi da una chiave, comunque poco capienti.
Abituato all’ufficio tradizionale nel quale ognuno ha la sua scrivania, insomma l’ufficio che diventa un po' la seconda casa, tutto ciò che vidi mi colse di sorpresa. Inizialmente pensai che si trattasse di un’esperienza isolata, una specie di sperimentazione avanzata di un nuovo modello, tuttavia ben presto, andando a visitare altri spazi per uffici, capii che quello era il trend.
Questa negazione dello spazio personale e personalizzabile, giustificata dalla necessità di ridurre i costi della postazione di lavoro, veniva spesso compensata da una serie di “benefit” per i dipendenti. E qui gli architetti non mancavano certo di fantasia: dagli spazi comuni dove poter fare colazione con macchinette per bibite e merendine e batterie di forni a microonde a veri e propri bar interni con tanto di barman sempre disponibile, dalla palestra interna all’orto urbano assegnato a chi si voleva cimentare nella coltivazione di ortaggi o legumi durante l’intervallo.
L’emergenza Covid-19 ha accelerato quindi un processo che in fondo era già iniziato: modificare radicalmente il concetto di lavoro, svuotando via via sempre di più il significato dello spazio ufficio tradizionale.
Che in una situazione di emergenza si possano e si debbano mettere in atto determinate scelte, appunto attraverso quello che viene chiamato “smart working”, per garantire il distanziamento sociale la considero cosa buona e giusta: le tecnologie della comunicazione, d’altra parte, hanno dimostrato tutta la loro efficacia ed è stato proprio grazie ad esse che almeno una parte della nostra economia è riuscita a sopravvivere.
Il problema è un altro: cosa succerà una volta che l’emergenza sarà finita? Continueremo tutti a lavorare da casa o potremo ritornare nei nostri spazi di lavoro più o meno smart?
La scorsa estate mi colpì molto il manifesto di un’agenzia immobiliare che diceva più o meno così: “vendesi appartamenti con spazio smart working e Locker condominiali”.
Pensare che chi viveva in quegli appartamenti avrebbe potuto vivere senza mai uscire di casa né per andare a lavorare né per fare la spesa mi mise ansia. L’uomo, infatti, ha bisogno di socializzare, di potersi confrontare con il collega, di imparare dal collega che ha più esperienza, il tutto a beneficio non solo dello stato di salute mentale individuale ma anche della crescita professionale. Nei rapporti umani spesso le cose più importanti si comunicano davanti alla macchinetta del caffè. E poi occorre considerare un altro aspetto: l’indotto che un’attività lavorativa svolta in modo più tradizionale può generare a livello locale, basti pensare ai bar, ai ristoranti, ai negozi o alle palestre.
Immaginare un futuro post-Covid nel quale le persone dovranno continuare a lavorare da casa a mio parere è una scelta poco smart e non credo che il risparmio degli affitti per gli spazi uffici possa compensare la perdita di professionalità, e della produttività in genere, senza considerare i danni psicologici individuali dei quali si hanno già alcune evidenze.
Che tutto torni come prima, con l’ufficio individuale con i disegni dei bambini appiccicati alle pareti, credo sia anacronistico. L’innovazione tecnologica, obbiettivamente, ci ha dimostrato i grandi vantaggi che possono derivare dal lavoro a distanza, non necessariamente a casa, basti pensare ai meeting organizzati in modo rapido sulle piattaforme che ci evitano inutili spostamenti, oppure la formazione on-line che grazie all’ICT ha superato ogni barriera non solo nazionale ma anche internazionale. Con le nuove piattaforme digitali, e le reti di telecomunicazione, è inoltre possibile utilizzare in modo meno intensivo la risorsa “territorio” limitando le concentrazioni fisiche nelle grandi città e sfruttando magari i bellissimi borghi abbandonati, ricchezza del nostro Paese.
Qual è dunque la soluzione per il nostro immediato futuro? L’ambiente di lavoro del Post-Covid va completamente ripensato e comunque il lavoro da casa è una scorciatoia che va bene sì per l’emergenza ma che non può essere la soluzione definitiva.
Questo intero ripensamento si dovrà necessariamente confrontare con i principi veri che stanno alla base dell’approccio Smart City: l’inclusione sociale e culturale ma anche lo stimolo e l’incentivazione di innovazione e competitività finalizzate a valorizzare l’individuo, quindi ciascuno di noi, nell’interesse della comunità.
La Smart City, quindi, deve essere considerata il vero telaio sul quale costruire un nuovo modello lavorativo, senza rinunciare a momenti di aggregazione e di confronto in presenza. Gli spazi occupati dalle aziende per gli uffici potranno nei prossimi anni diminuire e il lavoro a casa, se basato su alcune regole, almeno per alcune attività potrà rimanere. Nelle nostre città che diventano sempre più Smart si dovranno creare degli spazi di lavoro di aggregazione flessibili, degli spazi nuovi riprogettati sulla base di modelli di co-working. Deve diventare la città, sempre più smart, il vero luogo di lavoro, perché è nella città che noi viviamo e vogliamo continuare a vivere.